Riflessioni e proposte per un’economia della decrescita felice

Riflessioni e proposte per un’economia della decrescita felice

12 Novembre 2013 Nel territorio 0

Pubblichiamo alcuni spunti tratti dal Movimento per la Descrescita Felice del Veneziano, molto attivo nel sostenere un’idea di futuro che porti in altre direzioni, rispetto alle attuali. Riteniamo che molti concetti espressi siano perfetatmente adattabili ad ognuno di noi e alla realtà nella quale viviamo. E magari ci possono indirizzare nelle nostre scelte quotidiane.

Segreteria Tecnica de “La Piazza delle idee”

 

 

Sabato 21 e domenica 22 settembre, a Padova si è svolto il direttivo MDF (Movimento per la Decrescita Felice) nazionale e all’incontro erano presenti i circoli MDF del Veneto. Tra le diverse iniziative prese dal direttivo, segnaliamo l’evento che si è svolto sabato sera 21 settembre.

In quella data è stato organizzato un incontro pubblico dal titolo: “l’insostenibile pesantezza della crescita” a cui hanno preso parte Maurizio Pallante e Don Albino Bizzotto che è in protesta, sotto forma di digiuno, contro le grandi opere previste nel Veneto e contro lo spreco del territorio.

Dai temi trattati in quella serata sono emerse diversi spunti di riflessione che MDF fa suoi ancora con maggiore convinzione e che riportiamo di seguito invitando tutti i circoli e i simpatizzanti ad approfondirne attivamente le tematiche e le soluzioni.

Resta di primaria importanza la necessità urgente di opporsi alle grandi lobby del cemento ed imprenditoriali, che avendo a disposizione grandi capitali, con il favore dei partiti tradizionali, riescono ad imporre le loro scelte di consumo del territorio.

Inoltre le scelte di politica economica che mettono al centro le grandi opere, trovano chiaramente in capitali privati la possibilità di forte finanziamento. Da questo connubio ne traggono vantaggio soprattutto i privati, che solo in questo modo possono trovare opportunità di investimenti redditizi. Questi infatti da ogni grande opera ne traggono un lauto guadagno c a discapito della collettività pubblica che invece si accollerà per i prossimi decenni a seguire l’indebitamento nazionale. Tutto questo crea precarietà soprattutto per le generazioni future.

Un secondo motivo per opporsi alle grandi opere inutili è la sempre più presa di coscienza dell’opinione pubblica. Quest’ultima infatti non vede di buon occhio la realizzazione di grandi, dispendiose e spesso inutili opere. Si calcola infatti che la TAV Torino-Lione, secondo il governo italiano costerà 8,2 miliardi di euro e occuperà circa 6.000 persone (0,73 posti di lavoro ogni milione di euro investito), mentre il settore delle rinnovabili, secondo uno studio riportato sul Sole 24 ore occupa 4 posti per ogni milione di euro investito e l’efficienza energetica 13.

Nonostante la grande richiesta di posti lavoro e la crisi economica si continua con la politica delle grandi opere e pur consapevli del malcontento dei cittadini, i governi impongono le loro politiche usando anche la forza, come avviene con i NO-TAV pacifici in Val di Susa.

Un’ulteriore riflessione scaturita dalla serata è la proposta di creare un blocco sociale composto da piccoli e medi imprenditori, artigiani e professionisti consapevoli, da consumatori consapevoli e da amministratori consapevoli. Questo blocco che farà da massa critica, con il consenso elettorale di sane forse politiche, deve modificare la politica economica dell’Italia per arrivare ad una decrescita selettiva delle merci inutili e dannose perchè non servono e distruggono durante il loro ciclo produttivo il patrimonio ambientale esistente e formano rifiuti.

Uno dei punti di forza di questa nuova economia sarà spostare gli investimenti dalle grandi opere (costo e elevato, nessun controllo dei cittadini, grande consumo di risorse ambientale e pochi posti di lavoro quasi sempre sottopagati) alle opere di manutenzione del territorio e di efficienza energetica ( lavori con costo inferiori, distribuiti sul territorio, eseguiti da residente nel territorio, controllati dai cittadini, con grande bisogno di manodopera del luogo e che aumentano il patrimonio ambientale)

Ma in pratica come invertire la rotta? puntando ad incidere – da subito – su questi tre gruppi sociali imprescindibili:

1- Piccoli e medi imprenditori, artigiani e professionisti consapevoli. Sono il 90% delle imprese italiane presenti nel territorio e non riescono più ad avere commesse e dunque a lavorare. La politica economica di MDF prevede la creazione di tanti cantieri e commissioni per le opere di manutenzione ed efficienza distribuite in tutto il territorio, progettate ed eseguite da queste aziende consapevoli che assieme al bilancio economico devono presentare anche il bilancio naturale (le risorse usate per produrre devono essere uguali alle risorse prodotte dalla merce o dalla prestazione ottenuta).

Un esempio di tale prospettiva: la ristrutturazione di una abitazione che prevede almeno una decina di imprese di artigiani e 5-6 studi professionali, viene seguita prevedendo che il suo funzionamento avvenga senza consumare ancora petrolio o gas (risorsa non rinnovabile) attraverso l’energia prodotta dal sole (risorsa rinnovabile). In questo caso si rende evidente l’importanza della tecnologia avanzata nel progetto di MDF .

2- Consumatori consapevoli. Tutti i Cittadini dovranno assumere nuovi stili di vita a cominciare dal consumare merce utile prodotta da aziende e professionisti che producono con un bilancio ambientale almeno in pareggio. E’ fondamentale che il consumatore si rivolga a queste aziende e professionisti consapevoli.

3- Amministratore consapevole.  L’amministratore consapevole è il cittadino eletto che approva delibere nelle varie sedi amministrative (Comune, Provincia, Regione, Stato, ecc) che tendono alla diffusione della decrescita selettiva. E’ necessario creare ed inserire amministratori che votino contro le grandi opere e che deliberino per la progettazione e l’esecuzione di opere per la manutenzione del territorio e la sua efficienza.

L’unione fra queste tre elementi consapevoli, praticabile già da subito, porta ad una nuova economia, quella della decrescita felice.

 

Meno auto: tutti più veloci.

 

Noi dichiariamo finita la cultura dell’ “auto-a-tutti-i-costi”.

L’intelligenza si ribella all’idea di bruciare quello che resta del petrolio, per stare fermi dentro a un fiume di auto ferme. Non ci stiamo a considerare il nostro prossimo come un “ostacolo stradale”.

L’auto non definisce più uno “status”, risponde a un semplice bisogno di mobilità personale. Ma la mobilità complessiva è lenta a causa del sovrannumero di auto vuote.

Non siamo più interessati alla cultura della quantità, della fretta, dell’insoddisfazione permanente. Siamo per una cultura della “qualità”: virtù dei gesti quotidiani, vivibilità dei luoghi, sostenibilità del viaggiare.

Aspiriamo a città in cui il centro ideale sia la piazza, non uno spartitraffico. I “luoghi significanti” contengono sempre un’anima : mai un parcheggio.

La velocità è un valore, ma oggi viene dopo il rispetto, la sicurezza, l’educazione, il desiderio di bellezza. Non c’è bellezza nello sfrecciare senza nulla vedere, mentre c’è molta ricchezza nel camminare e nell’indugiare stupito. Il sovrannumero di auto è come il colesterolo in eccesso: un di più inutile e dannoso. Più auto, più congestione, più lentezza.

Non ha senso percorrere 500 km in tre ore, per poi rimanere fermi tre ore per fare gli ultimi 5 km. Neppure ha senso osannare la velocità dell’auto, quando una bicicletta, in città, va più forte. La bicicletta è metafora di una nuova qualità della vita: chi pedala non si arrabbia, non inquina; chi pedala di propria forza, riempie e guadagna il suo tempo, perché mentre si sposta tonifica il corpo e riduce la quota della palestra.

Non ha più senso il “tour automobilistico”: chi viaggia non desidera vedere illusoriamente il mondo da un finestrino, vuole calcarlo a piedi battenti.  La pubblicità per la vendita di auto, con la sua perfezione formale e con il suo spreco di intelligenze, rende manifesta la disperazione dei fabbricanti e insieme l’abilità di chi, per obbligo contrattuale, deve sostenere la desiderabilità forzata dell’oggetto.

Si compra un’automobile per acquistare velocità individuale, e l’effetto paradossale è quello di un rallentamento collettivo: un esempio di come la “razionalità individuale”, trasposta sui grandi numeri, può divenire “irrazionalità collettiva”. Non ha più senso progettare nuove circonvallazioni, nuovi parcheggi, nuove corsie e tunnel, per la semplice ragione che fra pochi anni il trasporto pubblico e privato sarà molto più ‘aggregato’, e siccome un minor numero di mezzi in movimento riduce l’effetto “onde di traffico” e le occasioni di inciampo della circolazione, i pochi momenti di “piena” automobilistica, oggi problematici, saranno facilmente controllabili con le dotazioni esistenti.

L’uso solitario dell’automobile ingobbisce la schiena e immiserisce lo spirito, mentre aprire la portiera ad estranei è un atto che fa sussultare il cuore, e ringiovanisce, e apre alla “serendipità”.

Toglieremo i dormitori per le auto, e “le piazze della città formicoleranno di fanciulli e di fanciulle, che giocheranno sulle sue piazze, e i vecchi e le vecchie siederanno ancora nelle piazze, ognuno con il suo bastone in mano per la loro longevità” (AT – Zaccaria 8, 1-8). Lo sguardo allora spazierà da soglia a soglia, e torneranno i pavoni sui culmini delle fontane.

Da subito vogliamo ridurre la nostra responsabilità di essere complici della de-forestazione causata dalla coltivazione di bio-carburanti sostitutivi dei carburanti fossili, e affermiamo che la “via breve” per togliere questo “assurdo razionale”, il sovrannumero di auto, è di imparare a sfruttare i sedili vuoti: carpooling, car-sharing, e jungo.

Non lasceremo nulla di intentato per ridurre la nostra dipendenza dal petrolio, per ridare spazio, aria e bellezza alle nostre città, e per fare ciò ci impegnamo a convertire sempre di più la mobilità solitaria in mobilità aggregativa.

Ass.Jungo

 

La Gratitudine

 Quando si sente parlare di decrescita felice si pensa sempre ad un concetto di economia. Questo in parte è vero perché la critica alla società dei consumi scriteriata non può che partire dalla messa in discussione del PIL. Tuttavia questo non è che un inizio, un passaggio quasi obbligato ma che non obbliga e non restringe la riflessione.

Anzi, partendo proprio da questa messa in discussione del modello fallimentare di sviluppo, si aprono immense praterie per rivedere l’umano, la sua collocazione e tutto ciò che ne consegue. Detto in altri termini mettere in discussione questo modello occidentale di sviluppo significa ripensare il nostro modo di stare nel mondo, scoprire cose nuove, ritrovare antiche saggezze, mescolarle e dare spazio alla creatività.

Uno degli aspetti più tristi che si possono verificare in questi tempi di barbarie avanzata e presente, è la mancanza di umanità sotto molteplici punti di vista. Gli uomini e le donne ogni giorno corrono il serio rischio di alienarsi e soprattutto di disumanizzarsi venendo meno al loro compito primario per cui sono nati: essere dei capolavori di umanità.

L’uomo è tale ed è pienamente felice solo quando è pienamente uomo, pienamente umanizzato. Cammino lungo, che impiega probabilmente tutta una vita, ma cammino necessario se vogliamo assaggiare distillati di gioia e se vogliamo seriamente rendere i posti in cui viviamo belli.

Di mancanza di umanità ne abbiamo esempi quotidiani, e dove manca questa, immancabilmente avanza la bruttezza sotto ogni punto di vista. Tuttavia l’importante è educare ex-ducere, tirar fuori il meglio e il bello che è in ogni essere umano.

Uno dei punti principali a mio parere per tirare fuori il bello dalle persone e delle persone è l’imparare a ringraziare. Può sembrare banale ma se ci fermiamo un attimo a riflettere, possiamo notare che oggi non sempre e non tutti conoscono questa sottile e nobile arte. Non parlo certamente dei “grazie” dati e detti per formalità (anche quelli sono importanti e non scontati di questi tempi), ma parlo di quella capacità interiore di saper riconoscere il Bene ricevuto e di saperne essere riconoscenti.

Troppo spesso noto che “tutto ci è dovuto”, che il piatto sulla tavola, i regali, la giusta accoglienza, il lavoro ben svolto, la casa pulita, i panni stirati, le cose autoprodotte, le vacanze, i viaggi, i giochi per figli, i libri, il necessario per la scuola, etc etc siano qualcosa di scontato e di dovuto, quasi come un contorno obbligatorio.

Eppure così non è e non deve essere. E questo per almeno due motivi. Il primo. Dietro ogni azione c’è (quasi) sempre l’amore di chi lo ha fatto. Faccio un esempio “banale” ma non superficiale: quando rientriamo a casa dopo una giornata dura di lavoro e troviamo il piatto pronto, noi dobbiamo sapere che dietro quel piatto c’è stato l’amore di chi lo ha preparato. C’è stato il voler trovare gli ingredienti giusti, il prepararlo nel modo più sano possibile, il farlo trovare caldo e al momento giusto (chi torna da lavoro spesso è burbero perché affamato e a tavola possono consumarsi le più brutte litigate per cose banalissime), lo ha preparato magari anche se stanca o stanco della sua giornata di lavoro. Insomma dietro quel piatto c’è un “ti voglio bene”, voglio che tu stia bene. Questo se ci pensiamo un momento è meraviglioso. E lo stesso vale per i vestiti lavati e stirati, per il cibo o gli utensili autoprodotti e quant’altro. Ed è giusto che chi prepara tutto questo si senta almeno dire un “grazie, è molto buono, bello quello che hai fatto e che fai”.

Ma mi domando e chiedo a chi legge: siamo ancora capaci di cogliere questo? Siamo ancora capaci di dire grazie? Siamo ancora capaci di riconoscere il bene e il bello?

E qui veniamo al secondo punto. Chi non è capace di gratitudine non è capace di cogliere il bene e il bello. In altre parole non è capace di meravigliarsi di stupirsi. E questo, mi si permetta è molto grave.

Un mondo, una persona che non sa stupirsi, non sa meravigliarsi, non riesce a cogliere il bello e il buono che gli viene fatto, cosa può cogliere della vita? Cosa può costruire nella vita? e se non nasce la gratitudine per qualcosa che riceviamo come possiamopretendere che nasca per qualcosa che non ci appartiene direttamente ma di cui siamo lo stesso custodi, quali la Natura, il mondo e l’ambiente in cui viviamo?

A me, lo confesso, stupiscono sempre quei bambini che non sanno più stupirsi a Natale. O che non si stupiscono più davanti ad un pacco regalo. Ne hanno talmente tanti che per loro è normale e doveroso. Attenzione qui non stiamo facendo del facile moralismo bigotto. Lungi da me. Ma sto cercando di dire che stiamo smarrendo al grammatica di base dell’essere umano che si trasmette solamente negli ambienti familiari, di qualsiasi tipo di famiglia.

Stupirsi, meravigliarsi, riconoscere il bene ricevuto ed esserne riconoscenti sono cose basilari che innescano, quando sono sinceri, dosi di vita nelle relazioni umane. Dire “Grazie” e anche saperlo ricevere, rendono la vita più bella, perché affinano i sensi, rendono gli occhi più profondi, fanno crescere lo spirito umano, lo rendono adulto, maturo e forte. Danno una possibilità a questa umanità sempre più invasa da barbarie. La gratitudine ha un grande potere, rende più umani e più belli, e ne abbiamo un disperato bisogno.

Alessandro Lauro

 

Dopo Lampedusa

Dopo l’ennesima strage avvenuta al largo di Lampedusa, non si trovano più le parole. Occorre fare silenzio e ascoltare la propria coscienza. Ma poi ci sono tante cose che possiamo fare: smetterla di lamentarci, ringraziare per la nostra buona sorte e poi rimboccarci le maniche, dare una mano al prossimo, non cacciare in malo modo chi bussa alla nostra porta o chiede il nostro aiuto ma dare sempre qualcosa, anche poco, ma qualcosa, almeno un sorriso. Insegnare ai nostri figli a fare quello che è giusto, non quello che conviene. Vivere più semplicemente, desiderare di meno, amare di più. E poi sostenere il commercio equo-solidale, mettere i nostri soldi nella Banca Etica e non nelle banche che commerciano in armi che causano le guerre da cui fuggono i migranti per cui poi ci commuoviamo quando accadono queste tragedie. Far conoscere e praticare la decrescita felice. Essere noi il cambiamento, come diceva Gandhi: “Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. E pretendere dai politici meno lacrime di circostanza, o di coccodrillo, e più azioni concrete contro le guerre e la povertà nel mondo. Perchè è una vergogna, come dice Papa Francesco, e perché non è più tollerabile “un mondo diviso in due stanze: in una si spreca, nell’altra si crepa” (Benedetto XVI). Sembra sia già passato un secolo dai tempi del Giubileo del 2000 o di Genova 2001, quando si gridava a gran voce nelle piazze che “un altro mondo è possibile”, poi ha vinto la “globalizzazione dell’indifferenza”. Ora è il momento di dire basta ad un mondo dominato dalla dittatura del PIL, dai Mercati e dal profitto e di rinnovare l’impegno per una globalizzazione della solidarietà!

Luca Salvi

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